Il tempio di Ramses II ad Abu Simbel fu scoperto nel 1813 dal famoso viaggiatore svizzero Jean-Louis Burckardt che, vestito da arabo e facendosi chiamare Sheikh Ibrahim, era riuscito ad arrivare in posti in cui nessun europeo avrebbe mai potuto sperare di mettere piede. Burckardt parlò di Abu Simbel in termini entusiastici a Giovanni Battista Belzoni. Con il finanziamento del console britannico Henry Salt, Belzoni partì allora per il sud, incurante delle minacce degli "indigeni con lance" che trovò più volte sul suo cammino. Arrivò incolume alla meta nel 1816, ma poté fare ben poco: almeno 9 metri di sabbia ne ricoprivano l’ingresso del tempio e non riuscì a trovare uomini disposti a lavorare per la cifra di cui disponeva; fu quindi costretto a ripartire senza aver raggiunto l’ingresso del monumento. Ma Salt non intendeva perdere un’occasione tanto ghiotta e rispedì Belzoni in Nubia, territorio quasi vergine dal punto di vista della ricerca archeologica. Nel luglio 1817, con un caldo quasi insopportabile, Belzoni era di nuovo di fronte ai colossi di Abu Simbel. Si mise a lavoro da solo, spogliandosi fino alla cintola per spalare la sabbia sotto la calura del sole di mezzogiorno e dieci giorni dopo apparve un foro sulla sommità della porta del tempio. Quando Belzoni vi si infilò carponi, usando solo la luce di poche candele, fu il primo uomo che, in tempi moderni, poté posare gli occhi sulle splendide camere tagliate nella roccia. Si guardò intorno e decise in fretta. Rimase due giorni soltanto, sufficienti per raccogliere tutto quello che fosse asportabile all’interno del tempio. Verso il 1825 una missione inglese eseguì i calchi dei colossi e le tracce di gesso lasciate sul monumento vennero tinte, 50 anni dopo, con galloni e galloni di caffé, da Amelia Edwards, scrittrice e principale animatrice della Fondazione per l’esplorazione dell’Egitto.